ORA

Questo primo pensiero sarà un pensiero sintetico, ma non per forza breve, e non per forza di ispirazione filosofica.

Mi sono resa conto di quanto la vita possa essere, appunto, sintetica. No, non mi sto riferendo alla routine, perché spesso la quotidianità può essere più ricca di emozioni di qualsiasi altro evento particolare, inteso, più che come diverso-dal-generale, diverso dal normale, o meglio, dalla normalità (che poi cosa è normale io non l’ho capito, non lo voglio troppo capire e forse è pure sbagliato ordinare entro la categoria “normalità” qualcosa).

Dopo aver imparato cos’è il dono della sintesi (ma non averlo quasi mai applicato), dopo aver capito che esistono tesi, antitesi e sintesi, dopo aver indossato vestiti di materiale sintetico, ho applicato alla mia vita una nuova sintesi, o meglio, l’ho applicata senza volerlo, mi sono sentita un po’ strana, e ho voluto chiamare questa stranezza così: sintesi; che magari non ha senso, magari è sbagliata, ma questo non è un trattato, è un cassetto di calzini stropicciati e nulla più.

Si diventa sintetici quando la gamma delle emozioni si riduce, e la qualità di queste è più affine ad un panino del Mc che ad un dolce artigianale. Si diventa sintetici quando si programma una vita con pochi programmi che assorbono tutto, o con tanti programmi che non assorbono niente, quando non ci si chiede più perché o ci si interroga senza fine. Si fa e basta. O si pensa eccessivamente senza mai concretizzare. E non c’entra il lavoro, il luogo, la provenienza, l’attitudine, c’entra che siamo emotivamente statici ed è come se provassimo sentimenti fatti in serie.

Questo era solo il preambolo, mi spiace.

 

Allora, il blog non sforna più merende perché non c’è più bisogno di ritrovarsi o di ritornare (se non a casa giusto per qualche giorno), e neanche di correre, di andare, c’è solo bisogno di quello che c’è adesso, o anche nessun bisogno eh.

Ho superato le Colonne d’Ercole nella notte tra il 29 e il 30 ottobre ed è stata una delle cose più difficili della mia vita, da provare, più che da vivere. Mi si è aperto davanti un oceano che io non conoscevo, per quanto lo sognassi e ci pensassi spesso. Ulisse era con i suoi compagni, io li ho lasciati in giro per l’Italia e sono tornata da sola perché volevo affrontare un mare diverso. Ho pensato che se fossi tornata a casa subito avrei vissuto la merenda più amara di sempre, avrei pianto un sacco, mi sarei crogiolata nei ricordi, cercando riferimenti nel mio spazio blu conosciuto, il mare Egeo che è la mia stanza, che però non avrebbe saputo darmi conforto o risposte, perché appartiene comunque a me.

Dovevo andare in un mare differente, un mare che non mi conosce e che io non conosco, quello che puoi percorrere con le vertigini mentre viaggi sulla prima strada statale della penisola a strapiombo sul mare, tra gallerie e alberi esotici che non hai mai vissuto, i palazzi scrostati della città incantata, il vento che ti dice quando e dove andare.

Milano la domenica, con la nebbia e la valigia piena di ricordi belli che fanno quasi male da quanto belli sono. Un presupposto struggente, per me. L’alloggio, sulla piazza di Nessun Grado di Separazione, un colpo al cuore definitivo. Avrei potuto sciogliermi dalla malinconia in dieci secondi, non avevo nemmeno fame. Però ho pranzato lo stesso, nel bar vicino, chiacchierando per praticamente quattro ore con un uomo che mi parla dell’America Latina e del freddo che faceva a La Paz. Che freddo, ma che gioia. Ho ripreso il quadernetto col palloncino, ho ripreso a scrivere. Assurdo, ma è stato così. Però l’ho guardato di nuovo quel palloncino che mi dice let it go e ho capito che la vita è incredibile sì, che spesso coincidono un sacco di cose, che sì, è meglio prendere sempre gli appunti, però a volte si riesce a registrare col microfono del cuore, ti godi la lezione senza crampi alle mani e va bene così.

Non guidavo da tantissimo tempo, ma ce l’ho fatta comunque. Basta avere fiducia in se stessi ma non sentirsi mai bravi. Il primo mare sconosciuto è stata la nebbia (sì, sono nata a BdG ma la nebbia non l’ho mai vissuta perché c’è tutto questo vento). Guidare, come dentro al fumo, in strade aliene ad una ventunenne neopatentata del nord est, è stato difficile ma mi è piaciuto un sacco. Poi, il Fabrique. Ho provato qualcosa di strano quando ci sono ritornata, ma cambiare, fisicamente e non solo, prospettiva, è stata una bella esperienza. Infine, L come lei, L come LISA. Una poesia. Entra la band e subito il pezzo che aspettavo: Ora. L’ultima volta che ho parlato di lei in questo cassetto non ci avevo capito niente di At Swim, poi ho capito tutto, o quasi, ovviamente. E mi sa che il perché di questo perché risolto, è dovuto al fatto che pensavo che lei nuotasse nel passato, invece lei sta nuotando adesso, e non davanti ad un porto irlandese, si è spostata, è andata oltre, probabilmente nel canale della Manica. Non sapeva che “Ora” significasse adesso, ha detto che è un nome di bambina che le piace molto. Ci ha regalato dei biscotti al cioccolato per halloween, che sì, sono stati la mia merenda. Ma, finalmente, una merenda dal sapore meraviglioso, per quanto un po’ forte, di ora.

 

Triora, il paese delle streghe. Tim Burton deve esserci stato in ferie prima di diventare Tim Burton probabilmente. E’ stato un halloween dal clima super autentico, tra gelati alla zucca e case diroccate, ma non è davvero importante questo. So solo che anche quando ho fatto la doccia appena arrivata a Taggia, in questa casetta in altura, di pietre e vecchie finestre, tra muretti, gatti, e biancheria stesa, ho pensato che anche quel momento era il momento più felice che potessi provare in quel momento, ora. Non ho pensato ad altro se non ad adesso. Io e la Maria Elena abbiamo dormito pochissimo, riso un sacco, soprattutto di noi stesse, abbiamo mangiato un po’ di tutto, ci siamo perse un sacco di volte, non abbiamo trovato sempre parcheggio e non ci siamo neanche arrabbiate, abbiamo ascoltato l’intera discografia di un’artista mentre eravamo in coda e non ci siamo neppure annoiate, abbiamo perfino scavalcato uno steccato rischiando di ammazzarci. E un sacco di altre cose che ora, ripeto, non riesco a descrivere bene, ma era lì, tutto lì. E in tutto questo mi sono resa conto che forse mi spaventano di più le persone stanche che quelle pericolose.

Il ritorno a casa. Non è stato un ritorno. E’ stato un altro viaggio, forse un’altra partenza. Voglio vivere per sempre sulla via Aurelia, sognando il mare, fermandomi a contemplarlo, assaggiando olive amare e comprando noccioline ai supermercati. E poi okay, il sole che improvvisamente non si fa più trovare fuori dalla galleria, come i veri amici, ma ti lascia un cielo plumbeo, ma non importa. Era comunque fico. Anche gli interminabili minuti in macchina, dove ho capito che quando mancano due ore e mezza all’arrivo, è buio, piove e sei stanco, solo Eddie Vedder può salvarti.

Orapizza. Un giorno, per caso, per cercare qualcosa trovi qualcos’altro. E così, scopri che esiste una pizzeria ad asporto con un nome dato chissà per quale motivo, che magari ha un senso neanche troppo profondo ma è chiaro che per te lo abbia, perché sembra la naturale chiusura di un cerchio fatto di ore vissute senza nessun pensiero passato o futuro, solo presente. E così, dopo mesi di avventure proteiche, l’abbiamo scelta come tappa finale. Per la prima volta il gusto l’ho scelto alla cassa, e non l’ho premeditato con mille teorie quantistiche. Solo lì, solo in quel momento, ho detto “sai che c’è? Ma anche una margherita è buona, me la faccia con doppia mozzarella”.

Così sono felice di non dover essere troppo sintetica per un po’. Oggi ho fatto colazione con la marmellata della madre, alle fragole. Ho apprezzato un sacco il fatto che era tutta una cosa di frutta, e non era una cosa sintetica. Sono ritornata sul regionale per Venezia, ho comprato il giornale, ho fatto una passeggiata, non lo facevo da tanto tempo, e anche se sono poche e semplici cose, le ho volute mangiare tutte, come una pizza, di cui vuoi assaporare ogni ingrediente.

Ero felice, sono felice, e ci ho fatto caso.

 

 

 

Di Francesca Michielin

Ciao, mi chiamo Francesca. Sono nata il 25 febbraio e per mestiere vivo da vent'anni in un cassetto di sogni stropicciati. Le farfalle che abitano il mio stomaco passano di tanto in tanto a trovare i pensieri nella mia testa, dove vivono a forma di palloncini. Ho due cuori, uno è un battito di ciglia, l'altro un prisma con venti facce triangolari. Ho guardato a lungo uno specchio che mi ricordava quella che sembravo e non quella che ero, ma da oggi voglio navigare senza le vele. Lontano.

7 risposte su “ORA”

Ma scusa Francy, perché dover essere per forza sintetici?chi vuole capisce sempre no?ho visto i tuoi snap “stregati” ihhi.
Io ho la patente ma, avendo un problema di vista grave (ipovedente da un occhio) evito nebbie e guida serale (a Parma ci sono parecchi autobus), grazie ancora del tour (ho l’amicizia da poco con Luca Marchi) e i ragazzi di via Scalabrini (prima o poi verrò a BdG) tra i followers su twitter, bellissimo concerto ma anche occasione di conoscere nuove persone, un abbraccio!p.s il dino triceratopo come sta?

come al solito parole mozzafiato,,,dopo la fine del live,non hai voluto fermarti a casa ,perche’ avresti pianto tanto e i ricordi ti avrebbero riempito la mente,quindi ha voluto trovare un’alternativa,dopo il fabrique di domenica,,,sei andata con la tua carissima amica maria elena a triora,che bello deve essere stato,voi due in giro da sole ,stile thelma e louise…fare l’aurelia costeggiando il mare da un’emozione indescrivibile….sei tu sei felice,anch’io lo sono…ci aspettano presto nuove avventure e io non vedo l’ora di risentirti e di riascoltarmi la tua musica fatta di parole che danno emozioni,fanno rabbrividire,…ora studia ,poi ci rivediamo….felici prima,felici ora,e ci abbiamo fatto caso…ti voglio bene

Il destinatario ha la casella postale piena. Il messaggio non è stato inviato!

Buona serata, Ico.

Chiaro che il mio commento precedente era fuori tema e me ne scuso vivamente Francesca.
Il tuo viaggio sembra quasi una favola di 2000 km in due giorni intensissimi.
Come neo patentata sei stata bravissima, dopo tre tour consecutivi, hai trovato la forza , sicuramente voluta , come tu lo spieghi benissimo, attraversando tutta l’Italia come una croce, ma anche con momenti di gioia pervasa, mista a malinconia. Ecco faccio fatica a entrare nel merito, qui non mi sento libero di esprimere il mio pensiero. Tutto quel mare, i ponti, la nebbia, la sosta, Lisa, ancora ponti, magari con sotto acqua che scorre e le papere che aspettano le briciole da due innamorati, poi le streghe. Qui ogni tanto salta tutto, allora chiudo donandoti una bella rosa e augurandoti una buona notte serena , con sogni d’incanto.
Ico.

E io sono felice per te, davvero! 🙂 Non preoccuparti troppo del percorso concluso: è stato incredibile, “che a raccontarlo non ci parole ancora”, ma è finito come doveva finire nel migliore dei modi, senza rimpianti, pronti per nuove avventure. Ma per ora goditi un po’ di normalità, te la meriti. 🙂

P.S. Anche in questo caso sarebbe meglio dire “quotidianità”. “Normale” e “normalità” sono termini sempre difficili da usare, perchè secondo me vengono usati in un’accezione sbagliata, come se facciano riferimento a una “norma”, una legge. Invece è da considerarsi normale semplicemente ciò che è comune in quanto diffuso tra i più, non in quanto obbligatorio. Anzi.

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